“La nave ha raggiunto la riva”, ha annunciato Rena Lee, presidente della 5a Sessione della Conferenza Intergovernativa (IGC) sulla BBNJ (Marine Biodiversity of Areas Beyond National Jurisdiction, Biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale) poco prima delle 21:30 del 4 marzo, tra gli applausi dei delegati.
Giunge così alla conclusione il lungo e a tratti faticoso negoziato per definire il Trattato dell’alto mare per proteggere l’oceano, affrontare il degrado ambientale, combattere il cambiamento climatico e prevenire la perdita di biodiversità.
Si può affermare che un impegno almeno decennale, soprattutto da parte di alcune Nazioni, per affrontare questo cruciale problema ambientale globale abbia trovato finalmente una soluzione, che appare a molti soddisfacente. A partire dagli attivisti, che l’hanno salutata come un momento di svolta per la protezione della biodiversità dopo anni di discussioni.
“Questo è un giorno storico per la conservazione e un segno che in un mondo diviso, la protezione della natura e delle persone può trionfare sulla geopolitica”, ha dichiarato Laura Meller di Greenpeace.
Le ultime due settimane hanno visto un susseguirsi di intensi colloqui. Poi con una maratona notturna dal venerdì al sabato, i delegati hanno finalizzato un testo che ora non può essere modificato in modo significativo.
L’accordo sarà formalmente adottato in un secondo momento, una volta vagliato dagli avvocati e tradotto nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite.
Le linee principali del Trattato
L’alto mare (high seas) è una definizione per indicare le acque che iniziano al confine delle zone economiche esclusive dei paesi, e che si estendono fino a 200 miglia nautiche (370 chilometri) dalle coste. Non ricadono quindi sotto la giurisdizione di nessun paese.
Il nuovo trattato consentirà di istituire aree marine protette su larga scala in tutti gli high seas. In questo modo si potrà ottemperare all’impegno globale dell’accordo Kunming-Montreal Global Biodiversity, concluso lo scorso dicembre per proteggere almeno il 30% dell’oceano entro il 2030.
Il trattato impone anche di valutare l’impatto delle attività economiche sulla biodiversità in alto mare.
Sempre sul piano economico, gli eventuali profitti che deriveranno dall’uso farmaceutico, chimico o cosmetico di sostanze marine scoperte di recente, e che non appartengono a nessuno, dovranno essere ripartiti tenendo conto dei paesi in via di sviluppo, privi dei mezzi per permettersi costose ricerche. Questi ultimi hanno infatti lottato per non essere esclusi dagli attesi guadagni derivanti dalla commercializzazione delle potenziali sostanze scoperte nelle acque internazionali.
Il trattato prevede di sostenerli nella loro partecipazione e attuazione del nuovo trattato da una forte componente di rafforzamento delle capacità e trasferimento di tecnologia marina, finanziata da una varietà di fonti pubbliche e private.
Terminati i negoziati, l’Accordo entrerà in vigore dopo la ratifica da parte di 60 Stati. A livello di UE, l’impegno per l’attuazione del Trattato si concretizza nella promessa di uno stanziamento di 40 milioni di euro nell’ambito di un Programma globale per gli oceani.
Non è questo l’unico impegno preso dalla UE in questi giorni sulla salvaguardia dei mari.
Durante la conferenza globale “Our Ocean” tenutasi a Panama il 2 e 3 marzo, la UE si è impegnata a stanziare oltre 860 milioni di dollari per la ricerca, il monitoraggio e la conservazione nel 2023 – su un totale di stanziamenti promessi dagli Stati che hanno preso parte alla conferenza di Panama di circa 19 miliardi di dollari.