Lo Smart Working continua a crescere in Italia. In aumento nelle grandi imprese e nelle PMI, in calo nella PA.

I “veri” smart worker stanno meglio, sul lavoro e fuori. Ed emettono 460kg in meno di CO2 all’anno a testa. Ma è necessario “rimettere a fuoco” il concetto, dicono dall’Osservatorio del Politecnico di Milano.

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Quando la realtà non corrisponde alla “narrazione” che molti (i media, soprattutto) ne fanno. L’ennesimo esempio riguarda il fatidico smart working, che, da scelta minoritaria praticata negli ultimi decenni da pochi imprenditori “illuminati” e visionari del futuro, si è improvvisamente trasformata in necessità stringente ai tempi del Covid. Per poi tornare – a quello che si dice in giro, appunto – a ridimensionarsi profondamente, e a costituire ancora una poco più che episodica alternativa al cosiddetto lavoro “normale”.

Le cose non stanno così: con buona pace dei tanti portatori di interessi che, per svariati motivi (e spesso poco nobili), si sono compiaciuti di dimostrare che il fenomeno si era sostanzialmente sgonfiato, e che certo non avrebbe potuto costituire il futuro dell’organizzazione del lavoro.
 

Invece lo smart working in Italia si consolida e torna a crescere. Lo certifica l’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano, che ha presentato nei giorni scorsi, durante il convegno “Rimettere a fuoco lo Smart Working: necessità, convenzione o scelta consapevole?”, i risultati della sua annuale ricerca.  

Il dato è chiaro: dopo i picchi della pandemia e una graduale riduzione negli ultimi due anni, nel 2023 i lavoratori da remoto nel nostro Paese hanno raggiunto i 3,585 milioni. Si tratta di una crescita, seppur leggera, rispetto ai 3,570 milioni del 2022. Quello che colpisce è il raffronto con il perdio pre-Covid: 541% in più. Non solo: le previsioni per il 2024 parlano di 3,65 milioni di smart worker in Italia. La crescita continua, dunque, ed è irreversibile.

Molto interessante, e anche indicativo, sapere in quali settori lo smart working cresce e in quali no.

Nel corso del 2023, certifica l’Osservatorio, i lavoratori da remoto sono cresciuti prima di tutto nelle grandi imprese: oltre un lavoratore su due, pari a 1,88 milioni di persone. Aumentano, anche se di poco, nelle PMI, con 570mila lavoratori, il 10% del totale. Dove al contrario calano? Nelle microimprese (620mila lavoratori, il 9% del totale); e nelle Pubbliche Amministrazioni (515.000 addetti, pari al 16%).

Il 96% delle grandi imprese prevede al loro interno iniziative di smart working: il 20% poi sta studiando modelli per l’applicazione anche a profili tecnici e operativi, che finora sembravano dover essere forzatamente esclusi. Forme di smart working, gestite a livello di team, sono ormai presenti nel 56% delle PMI, e nel 61% degli enti pubblici, soprattutto nelle realtà di maggiori dimensioni.

Ricordiamo ancora una volta gli effetti dello smart working sull’ambiente. Sul piano della riduzione della CO2, due soli giorni a settimana di lavoro da remoto evitano l’emissione di 480kg di CO2 all’anno a persona, in virtù della diminuzione degli spostamenti e del minor uso degli uffici. 

Cambia anche il volto del mercato immobiliare, e in modo significativo. Il 14% di chi lavora da remoto ha cambiato casa o ha deciso di farlo. La scelta è caduta su zone residenziali anche molto lontane dai centri urbani principali, o su piccole città. Questo rappresenta un importante effetto di rilancio per diverse aree del Paese, oltre a decongestionare molte sovraffollate aree urbane. 
Legato a questo cambiamento è il potenziamento delle infrastrutture di connettività sul territorio, così come la creazione di nuovi spazi coworking. 


Ma attenzione: non è tutto smart working quello che luccica.

I “veri” smart worker – sottolinea l’Osservatorio – ovvero quelli che, oltre a lavorare da remoto, hanno flessibilità di orari e operatività per obiettivi, sono quelli che presentano maggiori livelli di benessere ed engagement più alti dei lavoratori tradizionali in presenza. 
Mentre coloro che lavorano semplicemente da remoto, senza autonomia e responsabilità, hanno livelli inferiori rispetto ai lavoratori in presenza. 

C’è poi il tema del tecnostress e dell’overworking, cui indubbiamente sono soggetti i lavoratori da remoto. Qui l’Osservatorio sottolinea la necessità di un management “illuminato”, cioè a sua volta smart (che non per niente vuol dire “intelligente”). Se un capo assegna obiettivi chiari e realizzabili, fornisce feedback frequenti e favorisce la crescita professionale, gli smart worker sotto di lui avranno livelli di benessere e prestazioni sempre migliori. Se no, il lavoro da remoto può essere una iattura, o quasi.

“È quindi necessario ‘rimettere a fuoco’ lo Smart Working” sostengono i responsabili della ricerca “identificandolo per quello che è realmente: non un compromesso o un male necessario, nemmeno un diritto acquisto o un fine in sé, ma uno strumento di innovazione per ridisegnare la relazione tra lavoratori e organizzazione”.

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