Ipocrisia globale – La denuncia arriva dagli attivisti anti-debito “Debt Justice”. Si tratta di un’organizzazione nata per il Giubileo del 2000, con lo scopo di porre la questione del debito dei Paesi poveri in primo piano nella politica mondiale.
L’allarme che Debt Justice ha lanciato negli ultimi mesi riguarda però il rapporto fra i Paesi ricchi, quelli poveri e lo sfruttamento delle risorse naturali: in particolare, dei combustibili fossili.
In sostanza, secondo la denuncia dell’organizzazione, i Paesi ricchi stanno forzando le nazioni povere a investire in progetti di produzione dei combustibili fossili per ripagare i loro debiti.
Si tratta, secondo Debt Justice, di una vera e propria forma di “neocolonialismo”. La pressione esercitata dalle nazioni più sviluppate per ripagare i debiti sta costringendo quelle povere (ma ricche di materie prime) a continuare a investire in progetti di combustibili fossili, in palese controtendenza con quanto la comunità mondiale sta cercando di attuare su scala globale per contrastare i cambiamenti climatici e il degrado ambientale: ridurre la dipendenza energetica dai combustibili fossili fino a sostituirla completamente con le fonti di energia pulite e rinnovabili.
Secondo il rapporto presentato dagli attivisti, il debito dei Paesi del sud del mondo è aumentato del 150% dal 2011. 54 paesi sono in grave crisi debitoria, dovendo spendere cinque volte di più per i rimborsi di quanto non possono (o dovrebbero) fare per affrontare la crisi climatica.
“Gli elevati livelli di debito rappresentano un grave ostacolo all’eliminazione graduale dei combustibili fossili per molti Paesi del sud del mondo”, spiega Tess Woolfenden, responsabile politico senior di Debt Justice.
“Molti paesi” continua Woolfenden “sono intrappolati nello sfruttamento dei combustibili fossili per generare entrate al fine ripagare il debito. Allo stesso tempo, i progetti sui combustibili fossili spesso non generano le entrate previste e lasciano i Paesi ulteriormente indebitati rispetto a quando sono iniziati”.
Debt Justice parla, usando un’immagine efficace, di “trappola tossica”.
Come uscirne, dunque?
Per gli attivisti c’è una sola strada: cancellare tutti i debiti dei Paesi che devono affrontare le crisi più gravi – e in particolare quelli legati a progetti di combustibili fossili.
Anche le organizzazioni locali dei Paesi sottosviluppati concordano su questa denuncia.
Daniel Ribeiro, coordinatore del programma per la campagna ambientale mozambicana Justiça Ambiental, conferma che “il peso del debito del Paese è stato raddoppiato dai prestiti presi, senza l’autorizzazione del parlamento, dalle banche con sede a Londra nel 2013, sulla base delle proiezioni dei guadagni derivanti dalla scoperta di nuovi giacimenti di gas”.
Il Mozambico è precipitato in una crisi del debito proprio quando i prezzi del petrolio e del gas sono crollati, e cioè nel biennio 2014-2016. Le soluzioni proposte dagli investitori internazionali per salvare il Paese erano molto semplici: il rimborso dei prestiti doveva avvenire attraverso le future entrate del gas.
“Il debito causato dai combustibili fossili si sta strutturando per essere ripagato dai combustibili fossili, consolidando un circolo vizioso che può avere conseguenze molto gravi”, ha detto Ribeiro, il quale sottolinea come “la crisi del debito del Mozambico potrebbe essere il primo segnale di un’onda d’urto finanziaria globale”.
Situazione non dissimile nel Suriname, che, inadempiente per il proprio debito, nel 2020 ha concordato un accordo che avrebbe dato ai creditori il diritto a quasi il 30% delle entrate petrolifere del Paese fino al 2050.
Sharda Ganga, direttrice dell’organizzazione della società civile surinamese Projekta, ha spiegato ai giornalisti internazionali la spirale negativa in cui è entrato il suo Paese: “Poiché il nostro debito è diventato insostenibile, esso domina tutte le decisioni politiche e ha un impatto sulla vita dei nostri cittadini in ogni modo possibile. Guadagnare denaro il più rapidamente possibile per ripagare i creditori è quindi la priorità numero uno. Significa che non c’è più spazio per cose fastidiose come la sostenibilità o la giustizia climatica”.
Ancora più allarmante, per certi versi, è il fatto che questo meccanismo interessi anche una nazione come l’Argentina. Leandro Gómez, un attivista della Fondazione per l’ambiente e le risorse naturali (Farn) in Argentina, ha affermato che il suo Paese è di fatto esautorato dalla sovranità in materia di decisioni sui combustibili fossili e si trova a dover sovvenzionare le società petrolifere, a incoraggiare progetti di fracking e cancellare i progetti di energia rinnovabile.
Una sintesi lapidaria ed efficace della situazione la si può trovare nelle parole di Mae Buenaventura, del Movimento popolare asiatico per il debito e lo sviluppo. “La crisi climatica e quella del debito sono nate dallo stesso sistema” ha affermato “basato sull’incessante estrazione di risorse umane, economiche e ambientali da parte del nord del mondo per alimentare la spinta al profitto e all’avidità”.