Nel 1958 Italo Calvino pubblica su “Nuovi argomenti” il racconto La nuvola di smog, poi inserito nella sezione “La vita difficile” dei Racconti, quindi in una nuova edizione insieme a La formica argentina.
Narrato in prima persona, è la storia-ritratto di un intellettuale scapolo che si reca in una non meglio precisata città per lavorare come redattore a “La Purificazione”, una rivista che si occupa di temi ambientali e di inquinamento dell’aria per conto dell’EPAUCI (Ente per la Purificazione dell’Atmosfera Urbana dei Centri Industriali).
La grande città, infatti, appare avvolta, permeata, quasi soverchiata da una polvere onnipresente, che satura l’aria, si stende come un velo sugli edifici e s’infila dappertutto, fino negli interni delle case.
Il racconto ha inizio in autunno: ed è infatti il grigiore di una sorta di interminabile e persistente autunno delle cose e degli uomini a dominare tutta la visione del protagonista.
Grigia è la camera ammobiliata in cui abita, grigio perfino l’aspetto dell’affittuaria. In un incombente e uniforme grigiore si svolge tutta la sua giornata, dalle ore d’ufficio alla frequentazione di un ristorante toscano o di una birreria. Sola interruzione in questa soffocante routine metropolitana, la visita della sua ragazza: è proprio durante una passeggiata con lei in collina, che il protagonista vede per la prima volta chiaramente la nuvola di smog gravare sulla città.
Lo smog! – gridai a Claudia. – Vedi quella? È una nuvola di smog! Ma lei, senza ascoltarmi, era presa da qualcosa che aveva visto volare, uno stormo di uccelli, e io restavo lì affacciato a guardare per la prima volta dal di fuori la nuvola che mi circondava in ogni ora, la nuvola che abitavo e che m’abitava, e sapevo che di tutto il mondo variegato che m’era intorno solo quella m’importava.
Non ci vorrà molto a capire che l’origine di quella nuvola di smog è nella fabbrica di ghisa diretta dall’ingegner Cordà, che è anche direttore della rivista “La Purificazione”.
Nella sera nebbiosa emergevano poche ombre; in primo piano spiccava la sagoma d’un elevatore a catena che portava su grandi secchi – credo – di polvere di ghisa. Si vedeva la fila delle tazze di ferro salire con continui scatti e un lieve ondeggiare che pareva scomponesse un poco la sagoma del mucchio di minerale e mi pareva che un velo fitto se ne levasse in aria e venisse a posarsi anche sulla vetrata dello studio dell’ingegnere.
In quel momento egli diede ordine d’accendere la luce; d’improvviso contro il buio di fuori la vetrata apparve ricoperta d’un minuto smeriglio, certo fatto di polvere di ghisa, luccicante come il pulviscolo d’una galassia. Il disegno delle ombre là fuori si scompose; più nette risultarono in fondo le sagome delle ciminiere, incappucciate ciascuna da uno sbuffo rosso, e sopra queste fiamme per contrasto s’accentuava l’ala nera come d’inchiostro che invadeva tutto il cielo e vi si scorgevano salire e vorticare punti incandescenti.
E io che tante volte di fronte a lui, negli uffici dell’Ente, sfogavo il mio naturale antagonismo di dipendente dichiarandomi mentalmente dalla parte dello smog, agente segreto dello smog penetrato nello stato maggiore nemico, ora capivo quanto il mio gioco era insensato, perché era l’ingegner Cordà il padrone dello smog, era lui che lo soffiava ininterrottamente sulla città, e l’EPAUCI era una creatura dello smog, nata dal bisogno di dare a chi lavorava per lo smog la speranza d’una vita che non fosse solo di smog, ma nello stesso tempo per celebrarne la potenza.
La logica del sistema è dunque evidente, così come il ruolo di purificazione della cattiva coscienza (oggi diremmo di “greenwashing”) che ha l’ente per cui il protagonista lavora.
L’incontro con un operaio sindacalista sembra chiarire le idee all’intellettuale, che abbozza un gesto di dissenso:
Pubblicai su «La Purificazione» una notizia presa da un giornale straniero sull’inquinamento dell’aria per le radiazioni atomiche. Era in corpo minore e l’ingegner Cordà sulle bozze non ci fece caso, ma la lesse sul giornale già stampato e mi mandò a chiamare.
– Santoddio, bisogna proprio star dietro a tutto, cento occhi ci vogliono! – fece. – Cosa le è venuto in mente di pubblicare quella notizia lì? Non è di queste cose che si occupa il nostro Ente. Ci mancherebbe! E poi, senza dirmi nulla! Una cosa così delicata! Adesso diranno che ci mettiamo a fare della propaganda!
Ma ben presto si accorge che gli allarmi a mezzo stampa non sortiscono effetto presso i lettori, e che tutto sembra essere avvolto dalla nuvola di smog dell’indifferenza e dell’assuefazione.
Feci un numero de «La Purificazione» in cui non c’era articolo che non parlasse della radioattività. Neanche questa volta ebbi seccature. Che non fosse letto però non era vero; leggere, leggevano, ma ormai per queste cose era nata una specie d’assuefazione, e anche se c’era scritto che la fine del genere umano era vicina, nessuno ci badava.
Anche i settimanali d’attualità portavano notizie da far rabbrividire, ma la gente sembrava prestar fede solo alle fotografie a colori di belle ragazze sorridenti in copertina. Uno di questi settimanali uscì con in copertina la foto di Claudia in costume da bagno che faceva un’evoluzione sugli sci d’acqua. La appesi con quattro puntine a una parete della mia stanza d’affitto.
Un’assuefazione che, in fondo, si è impadronita anche del protagonista. Resta solo, come ultima impotente difesa, il gesto nevrotico di pulirsi continuamente le mani sporche di polvere. E forse l’accettazione cosciente della propria condizione: un’immersione consapevole in quella stessa nuvola di smog che gli consenta – paradossalmente – di non lasciarsi sopraffare in modo definitivo dal male di vivere e di intravvedere un principio di liberazione.
Io cominciai a scrivere uno dei soliti pistolotti, ma poco a poco, da una parola all’altra, mi venne da descrivere la nuvola di smog come l’avevo vista strusciarsi addosso alla città, e la vita come si svolgeva dentro questa nuvola, e le facciate delle case antiche, piene di sporgenze, di incavi, dove s’addensava un deposito nero, e le facciate delle case moderne, lisce, monocrome, squadrate, sulle quali a poco a poco s’estendevano delle sfumate ombre scure, come sui colletti bianchi delle camicie del personale impiegatizio, che non duravano puliti mezza giornata.
E scrissi che sì, ancora c’era chi viveva fuori della nuvola di smog, e forse ci sarebbe sempre stato, chi poteva attraversare la nuvola e soffermarcisi proprio nel bel mezzo e uscirne, senza che il minimo soffio di fumo o granello di carbone toccasse la sua persona, turbasse il suo ritmo diverso, la sua bellezza d’altro mondo, ma quel che importava era tutto ciò che era dentro lo smog, non ciò che ne era fuori: solo immergendosi nel cuore della nuvola, respirando l’aria nebbiosa di queste mattine (già l’inverno cancellava le vie in un’indistinta bruma), si poteva toccare il fondo della verità e forse liberarsi.