Come si trasforma l’acqua marina in acqua potabile. La dissalazione

In tutto il mondo, molte persone soffrono di una terribile mancanza di acqua potabile. L'acqua marina ci offre una soluzione.

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Ci sono molte cause alla base della mancanza di acqua potabile: due fra tutte, la crescita demografica e il cambiamento climatico. Ciò che conta, tuttavia, è trovare soluzioni concrete per risolvere questo problema urgente.

L’acqua marina rappresenta una possibile alternativa all’acqua dolce tradizionale, visto che copre ben il 70% della superficie terrestre. Non solo è abbondante e facilmente disponibile nelle aree costiere del nostro pianeta, ma grazie alle nuove tecnologie siamo ora in grado di trasformarla in acqua sicura da bere. Il processo attraverso il quale questo avviene è chiamato dissalazione.

La desalinizzazione dell’acqua marina sta già aiutando numerose comunità nel mondo a superare la loro dipendenza dalle limitate fonti d’acqua dolce esistenti. E’ dunque una grande opportunità per aumentare l’affidabilità delle forniture idriche locali e garantire alle persone accesso ad acqua potabile sicura. Con alcune riserve, però.

Il processo di desalinizzazione fu descritto già da Jean-Antoine Nollet nel 1748. Nonostante questo, non fu utilizzato come strumento di purificazione prima del 1950 all’ Università di Los Angeles.

La desalinizzazione dell’acqua di mare è il processo di rimozione dei minerali dall’acqua di mare o salmastra. Funziona rimuovendo il sale dall’acqua, lasciando dietro di sé acqua pulita. Esistono diversi tipi di processi di desalinizzazione dell’acqua: tra queste l’osmosi inversa, la distillazione termica e l’elettrodialisi.

Nella distillazione si riscalda l’acqua di mare catturandone il vapore, per poi condensarlo nuovamente in acqua dolce. Tecnicamente è detta “distillazione flash multistadio”: un processo basato sul principio che l’acqua bolle a temperature più basse man mano che la pressione atmosferica scende. L’acqua marina passa attraverso diversi “stadi”, ciascuno dei quali contiene uno scambiatore di calore e un raccoglitore di condensa. Nel primo stadio, parte dell’acqua convogliata bolle rapidamente, formando vapore, che poi si condensa in acqua dolce sui tubi di scambio termico.

Un secondo metodo è quello della cosiddetta osmosi inversa: in questo caso l’acqua, con i sali disciolti al suo interno, viene essenzialmente pompata ad alta pressione attraverso una membrana semipermeabile che blocca le componenti saline, mentre lascia passare le molecole d’acqua.

E dal punto di vista ambientale?

Tutto bene, dunque? Non proprio, perché sono noti da tempo i problemi ambientali che questa tecnologia comporta.
Due sono essenzialmente i profili di non sostenibilità. Uno è il fatto che sia un processo ad alto consumo di energia e che, essendo alimentato da combustibili fossili, contribuisca in maniera rilevante all’aumento delle emissioni a effetto serra in atmosfera, e quindi al riscaldamento globale.

Il secondo fattore critico riguarda i residui della desalinizzazione, la cosiddetta “salamoia”. Questa risulta essere tossice, una volta rilasciata in mare, inquina gli ecosistemi costieri. Si stima che nella maggior parte dei processi di dissalazione, per ogni litro di acqua potabile prodotta si creino circa 1,5 litri di acqua reflua contaminata con cloro e rame.

Un uso massivo dei processi di desalinizzazione può dunque avere, al momento, ricadute estremamente negative. E’ necessario lo sviluppo di nuove tecnologie, o il miglioramento delle tecnologie esistenti, che da parte loro in questi anni hanno già conseguito una forte riduzione dell’energia necessaria al loro funzionamento.

 

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