Calvino scrittore ecologista
[sc_embed_player fileurl=”https://discorsigreen.s3.eu-central-1.amazonaws.com/calvinoscrittoreecologista.mp3″]
Una delle opere più conosciute e amate di Italo Calvino è certamente Marcovaldo, ovvero le stagioni in città (1963).
Si tratta di una raccolta di venti novelle, già pubblicate in parte sull’”Unità”, venti storie o episodi accomunati dall’ambientazione in una realtà urbana (non precisata, ma nella quale non è difficile scorgere Torino) e dal protagonista di tutti i racconti: Marcovaldo, un manovale “ingenuo, sensibile, inventivo, interessato al suo ambiente e un po’ buffo e melanconico”. Calvino scrittore ecologista.
Nella città “moderna”, Marcovaldo si muove come un déraciné, uno sradicato, “diviso tra gli ingenui vagheggiamenti di ritorno ad una natura primigenia e l’alienazione della vita urbana”.
Alienazione è infatti il concetto-chiave, di ispirazione materialistica e marxiana, di tutto il libro. E’ il processo in base al quale l’uomo si estrania da se stesso, perdendo la sua identità umana. Nella società capitalista questo diventa il fenomeno predominante che investe il proletariato e ne modella negativamente la condizione: il lavoratore, in particolare l’operaio, estraniandosi dalla sua stessa umanità e identificando tutto il sé con l’oggetto prodotto, si rende profondamente infelice, “non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito”.
Naturalmente questa profonda spersonalizzazione, questo abdicare alla propria condizione umana, si riflette fra le prime cose nel rapporto dell’essere umano con l’ambiente che lo circonda e in cui vive. Marcovaldo, come tutti i proletari del dopoguerra, proviene dal mondo contadino, è un contadino urbanizzato. Nella grande città industriale del nord, dunque, il suo rapporto con la natura è pressoché rovesciato, o meglio stravolto. Egli cerca le tracce del suo mondo di riferimento nei “lacerti” di natura che la città sembra proporgli, ma per restarne ogni volta deluso, sconcertato: e in ultima analisi ancora più confuso riguardo la sua identità attuale, quello che è diventato (da quello che era) in nome del progresso, dello sviluppo, della modernità.
Nella città industriale, la natura è presente solo in forma di residuali, stravolti elementi: la “striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale”; lo spazzino i cui “occhiali […] scrutavano l’asfalto della strada in cerca di ogni traccia del naturale da cancellare a colpi di scopa”; “il verde d’una piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie”.
Così Marcovaldo si trova costretto a inseguire le tracce della natura addirittura al cinema nelle serate più fredde – il massimo, dunque, dell’alienazione: “La passione di Marcovaldo erano i film a colori, sullo schermo grande che permette di abbracciare i più vasti orizzonti: praterie, montagne rocciose, foreste equatoriali, isole dove si vive coronati di fiori. […] col pensiero continuava ad abitare quei paesaggi e a respirare quei colori”.
La questione ambientalista (o meglio ecologica, per usare un termine più tipico degli anni in cui Calvino scriveva) è affrontata esplicitamente nel racconto intitolato Dove è più azzurro il fiume. Il tema della novella è infatti l’inquinamento “globale” del quadro ambientale urbano, che avvolge tutti gli aspetti materiali della vita dei cittadini: a partire dal cibo con il quale ci si nutre.
Al centro della descrizione di un ambiente già ampiamente degradato c’è il fiume cittadino: una discarica a cielo aperto, che raccoglie scoli e fogne di tutto il tessuto urbano.
Di fronte a questa disarmante realtà, la risposta di Marcovaldo non può, stanti i suoi mezzi limitati di elaborazione anche politica delle contraddizioni, che essere quella di contrapporre un salto nella fantasia: un corso d’acqua immaginario, immaginato nell’idillio campestre. Da qui la frase, fra le più felici di tutto il libro e spesso citata: “Devo cercare un posto, – si disse – dove l’acqua sia davvero acqua, i pesci davvero pesci. Lì getterò la mia lenza”.
Quando Marcovaldo sembrerà aver finalmente trovato il suo luogo agognato, il risveglio all’amara realtà urbana e industriale (che ormai ha allargato i suoi tentacoli ben al di là della città) sarà crudele.
L’acqua azzurra che credeva di avere trovato, in realtà deve il suo colore nientemeno che agi scarichi di vernici emessi dalla fabbrica a monte.
Tutto dunque è avvelenato, tutto è artefatto e corrotto: nell’ambiente che circonda Marcovaldo sembra non salvarsi nulla, e va addirittura profilandosi una pericolosissima dittatura delle apparenze e delle illusioni. Una natura “fasulla”, ricreata ad arte per dare agli umani l’impressione di un eden postmoderno. Qualcosa di non troppo lontano, in definitiva (anche se forse Calvino non era arrivato a prevedere tanto. O forse sì) da un pericoloso, ingannevole e globale greenwashing: il nemico invisibile con cui oggi, a distanza di sessant’anni dal libro calviniano, ci troviamo troppe volte a combattere.