Le città
Città roventi : Ormai lo sappiamo bene. Le città italiane sono diventate delle vere e proprie “isole di calore”. L’alta concentrazione di cemento e asfalto assorbe le radiazioni solari, accumulando calore durante il giorno e rilasciandolo durante la notte. E il tutto è destinato a peggiorare sensibilmente.
Se nelle città, com’è possibile, le temperature saliranno anche di 5°C o perfino 10°C in più rispetto alla campagna circostante, i centri urbani diventeranno un vero e proprio ambiente inospitale. Le ondate di calore porteranno ad un continuo stress termico per l’organismo con danni considerevoli alla salute: crisi ischemiche, ictus e disturbi metabolici.
Nell’ambiente urbano, poi, sono più elevate le emissioni sia di gas ad effetto serra (CO2, CH4) che di sostanze quali SO2, NO2, CO, benzene (C6H6), particolato fine (PM10 e PM2.5) e ozono troposferico (O3) – sostanze, si badi bene, non originate solo dalle attività umane, ma che si formano anche in atmosfera.
L’aumento delle temperature nelle città, secondo gli esperti, “potrebbe agire sui legami fotochimici dei loro precursori presenti in atmosfera, innescando reazioni secondarie che portano alla formazione di questi agenti inquinanti”.
Tradotto in termini più semplici, significa che le aree urbane saranno più inquinate di quanto già non siano, con elevati rischi per la salute umana.
E passiamo alle precipitazioni. Ci dobbiamo aspettare un aumento delle piogge intense, con tutti i rischi loro connessi.
E’ un dato che abbiamo purtroppo sentito ripetere più volte in questi ultimi anni, ma è lo stesso impressionante: il 91% dei comuni italiani risulta a rischio per frane e alluvioni, e oltre 7 milioni di persone vivono in aree definite a “maggiore pericolosità” (Legambiente, 2019).
La causa principale di questa situazione è il consumo del suolo: altro concetto che ormai, purtroppo, ci è familiare. Si sono trasformati suoli permeabili (prati, boschi, campi) in superfici impermeabili ricoperte di cemento, riducendo la capacità di drenaggio dei bacini idrografici.
Si aggiunga poi che il rischio geo-idrologico è maggiore nelle zone di maggior “disagio sociale”, che presentano un più alto consumo di suolo rispetto alle aree più ricche. Cosa che può moltiplicare gli effetti catastrofici degli eventi avversi: è ovvio che in aree più “disagiate” il rischio climatico avrà un impatto più devastante economicamente rispetto ad altre zone del Paese.
Italia fertile, sempre meno fertile
Con l’innalzamento delle temperature e la sempre maggiore instabilità delle precipitazioni, la siccità si estenderà in molte aree del Paese.
E’ prevedibile che, da qui al 2100, molte colture reagiranno con un’accelerazione del ciclo di crescita. Un fenomeno solo apparentemente positivo, ma che in realtà limitando il periodo a disposizione per l’accumulo di biomassa, porterà a riduzioni della resa.
Il primo problema, come si è detto, per l’agricoltura italiana del domani sarà la carenza d’acqua, particolarmente nelle regioni meridionali.
Calo delle precipitazioni e aumento dei periodi siccitosi, estivi e non, porteranno ad un calo dell’acqua disponibile per l’irrigazione. I settori produttivi si metteranno in concorrenza tra loro, e bisognerà decidere quanta acqua destinare agli agricoltori, quanta all’industria e quanta alle abitazioni civili.
Con meno acqua le coltivazioni daranno rese più basse, anche sensibilmente. Per il mais ad esempio, una delle nostre principali colture, si è stimata una possibile perdita di resa del 20%.
A causa del cambiamento climatico, cambierà poi anche la geografia delle produzioni tipiche. Nell’Italia del 2100 la coltivazione della vite e dell’olivo potrebbe diventare impossibile, o molto meno produttiva, in Calabria. Al contrario le Alpi potrebbero avere dei climi ideali per ospitare queste colture.
La variabile più preoccupante, però, sarà quella dell’instabilità del clima del 2100. Gli eventi climatici estremi, come forti piogge, grandinate, gelate fuori stagione, siccità o ondate di calore porteranno alla distruzione e alla perdita di molti raccolti.
Se i boschi bruciano
I climatologi usano un’immagine efficace: con il cambiamento climatico le nostre foreste si “muoveranno”.
Significa che molti territori diventeranno troppo caldi o troppo aridi per ospitare alcune specie boschive e molti tipi di alberi migreranno da alcune zone in altre con un clima più favorevole. Saranno interessati soprattutto gli Appennini, mentre le Alpi, diventeranno delle vere e proprie “aree rifugio” per la migrazione di molte specie forestali.
Dunque le foreste italiane nel 2100 potrebbero essere completamente diverse per composizione da quelle di oggi. Il pino marittimo rischia di scomparire, e con esso le pinete; scompariranno l’Abete Bianco, il Pino Silvestre e molte altre specie dai boschi appenninici, e si ritireranno sulle Alpi alle quote più elevate.
Resisteranno invece e conquisteranno sempre più spazio, grazie alla loro resistenza alla carenza d’acqua, le querce mediterranee: il leccio, la roverella, il cerro.
Il nemico numero uno delle foreste italiane sarà, inutile dirlo, il fuoco. L’aumento delle temperature e della siccità porterà ad un conseguente aumento degli incendi boschivi. Fenomeni distruttivi cui darà il suo contributo lo spopolamento delle aree rurali. Se i campi verranno abbandonati e col tempo diventeranno boschi: abbandonati, però, e non gestiti da nessuno.
Se nessuno ripulirà il sottobosco da rami e massa legnosa morta, farà diradamenti per ridurre la densità degli alberi o pascolerà gli animali in bosco, la conseguenza sarà appunto l’aumento degli incendi e della loro vastità.
Anche noi ci abitueremo ai “Megafire”, come li chiamano gli americani: incendi che interessano aree molto grandi, capaci di raggiungere anche i villaggi abitati, con rischi grandissimi per la popolazione.
Fonti e approfondimenti:
ISPRA, Corte dei conti Europea, SISEF (AGGIORNAMENTO 2024)